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La Settimana di Pandolfini

FIORINI, ZECCHINI, RUSPI E RUSPONI

La monetazione aurea fiorentina ha una lunga tradizione di successo che affonda le sue radici all’epoca del fiorino d’oro, ideato per dotare la città e i suoi operosi mercanti di una valuta di più alto potere liberatorio e che fosse universalmente accettata rispetto alle monete d’argento locali, diverse tra loro per peso e intrinseco. Tuttavia al momento della sua coniazione, nel mese di novembre dell’anno del Signore 1252, il fiorino d’oro stentava ad essere apprezzato: Paolino Pieri, nelle sue “Croniche della città di Firenze”, ci testimonia addirittura che non era quasi chi’l volesse. Ma la storia ci ha invece testimoniato che già qualche anno dopo la sua apparizione questa nuova moneta fu con tanta meraviglia veduta, e con tale affermazione abbracciata, che poco a poco incominciò nulla altra a piacere, né d’alcun altra contentarsi tanto gli uomini, quanto di lei, ed in questa volere non i Mercatanti fare i mercati, e ricevere i pagamenti, e’ cambi, ma ancora i Signori le loro entrate (Mons. Borghini Vincenzo, Della Moneta Fiorentina,1585).

Proprio grazie al credito di cui godette universalmente, il fiorino d’oro mantenne inalterato il suo aspetto nei secoli, così come mantenne sempre pressoché inalterato il suo peso (3,5 grammi) e la sua purissima lega (24 carati): da una parte fu impresso il giglio sbocciato (fiore dell’iris o giaggiolo bianco), vero e proprio simbolo “parlante” di Florentia, e dall’altra il suo santo patrono benedicente, Giovanni Battista, ispirato verosimilmente ai mosaici duecenteschi del Battistero, il più venerato e antico simbolo cittadino. É sempre Monsignor Vincenzo Maria Borghini, attivo alla corte di Cosimo I de’ Medici come storico dopo un’iniziale formazione monacale benedettina alla Badia Fiorentina, che appunta che quello speciale giglio fiorentino, presente nel gonfalone della città, non è quel fiore così bianco, e frale, il quale oggi vulgarmente si chiama Giglio, e non ha punto la forma del nostro, e ne’ pur vi si appressa, ma il fiore d’una minore spezie di ghiaggiuolo, che è in tre come foglie diviso […] ed è quello, che alcuni, o bene, o male, han chiamata Iride Illirica, e se ne trova in Montemorello, ove spontaneamente ne nasce assai.

Nel corso dei secoli, soprattutto a partire dal periodo Mediceo, le vicende politiche e le nuove rotte commerciali suggerirono modifiche nella dotazione aurea della zecca fiorentina, che introdusse prima lo Scudo d’oro detto del “sole”, sul modello francese (Écu d’or), perché caratterizzato da un piccolo sole raggiante nel dritto in legenda, e successivamente la Doppia d’oro, di nuova istituzione derivata dal diffuso prototipo spagnolo (Dobla de oro) con i suoi sottomultipli (mezza doppia e quarto di doppia). Fu tuttavia proseguita la coniazione del fiorino, che continuava a circolare nei nuovi e vecchi tipi, chiamato in questo periodo anche Ducato o Zecchino gigliato, anche se perse temporaneamente il favore che lo aveva accolto in precedenza e lo si coniò meno. A partire dal periodo di Cosimo III de’ Medici il fiorino o zecchino (denominazione già in uso a Venezia nel XIII secolo per il suo elevato titolo di coniazione) fu anche detto Ruspo, dal latino asper (ruvido), in relazione alla sua qualità di coniazione che ne caratterizzava gli alti rilievi del tondello che apparivano perciò molto spesso “taglienti”. A conferma di quanto detto ci viene in aiuto anche il dialetto lombardo che definisce röspech una moneta nuova di zecca, cioè non ancora consunta o levigata dall’usura della prolungata circolazione, termine che è di probabile derivazione longobarda. Dal 1719 venne coniato il suo primo multiplo da tre, che viene per questo chiamato Ruspone (o Zecchino da 3), e dal 1724, per volere dei mercanti, il suo divisionale della metà del valore (mezzo zecchino o mezzo ruspo).

Le floride condizioni economiche in cui versava la Toscana conseguenti alle riforme di Pietro Leopoldo, e poi durante Ferdinando II e Leopoldo II, e il graduale ritiro delle specie monetali medicee, tosate ed usurate dalla prolungata circolazione, furono gli impulsi che indussero la zecca a riprendere massivamente la coniazione della monetazione aurea, nei tipi già noti del Ruspo e Ruspone. La loro coniazione terminò, all’alba dell’Unità d’Italia, rispettivamente, con il ruspo di Leopoldo II, nel 1853, e il ruspone per il neo-proclamato Governo della Toscana, nel 1859.

Una nota poco lusinghiera, che ci riconduce all’epoca della coniazione di queste monete e ci descrive di un loro “improbo” utilizzo alla corte granducale, è desumibile dalla cronaca di Gualtiero, che ci riferisce che il primo consigliere di Gian Gastone, Giuliano Dami, era solito procacciare per il Granduca decine di ragazzi di borgata “dal fisico svelto e tonico” per allettare i suoi capricciosi vizi: settimanalmente, i chiassosi “ruspanti” invadevano la corte di Palazzo Pitti e il Granduca dava loro come ricompensa alcuni ruspi, grazie ai quali si deve il terrigno soprannome dato a questi giovani. Alcuni esemplari di queste monete verranno proposte nella prossima sessione di vendita fissata per il 3 dicembre insieme a tante altre monete auree italiane e straniere.

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