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La Settimana di Pandolfini

UNA MONETA D’ORO…ZECCHINO

Lo zecchino, nome celebre della splendida e longeva moneta aurea coniata a Venezia, è il termine che ha sostituito l’antico nome di ducato per indicare le emissioni in oro in uso dal Medioevo che incontrò il favore del popolo e finì per contribuire al successo economico e finanziario della Serenissima. Le sue radici affondano nell’anno del Signore 1284 quando il Consiglio dei Quaranta, che allora reggeva il governo repubblicano, decise di introdurre una moneta tam bona et fina per aurum vel melior ut est florenus (testualmente “la moneta doveva essere di oro fino simile se non migliore del fiorino”). Chiaro riferimento al gradimento che la moneta di Firenze in uso dal 1252 stava godendo sui mercati internazionali. Per cinque secoli, cioè fino alla caduta della Serenissima (1797), esso avrebbe conservato il titolo di 24 carati; la sola modifica, attuata in tre volte fra il 1491 e il 1559, si limiterà a ridurre il peso del fino da grammi 3,56 a grammi 3,49. Questa politica di difesa del ducato è orgogliosamente riassunta nella raccomandazione letta il 18 aprile 1414 dal Maggior Consiglio: “(…) ciò risulta essere di grande onore e vantaggio per la nostra città, evidentemente per il fatto che la nostra moneta è di puro oro più di qualsiasi altra moneta al mondo”.

Le immagini che vennero impresse sulle due facce del ducato furono di stile nuovo anche se di fatto riflettevano l’iconografia bizantina che era già presente nel grosso d’argento. D’altra parte Venezia era una città che aveva proiettato fino dalle sue origini il proprio interesse verso il Mediterraneo orientale e in particolare verso l’Egeo. Al rectodella moneta presenta la consueta immagine del Doge inginocchiato dinanzi a san Marco nell’atto di ricevere il gonfalone, immagine modellata con eleganza inconsueta; tutt’intorno si legge il nome del doge in carica al momento della coniazione. Nel verso è scolpita l’immagine del Redentore, ritto in piedi e col capo cinto dal nimbo crociato proprio della tradizione bizantina, benedicente con la mano destra mentre la sinistra regge il libro dei Vangeli, elaborazione presente in un mosaico del XII secolo della cupola centrale della basilica di San Marco. L’immagine è racchiusa nella cosiddetta “mandorla” di luce, cioè “un’aurea ellittica (…) o per dir meglio composta di due archi a cerchio che si uniscono a sesto acuto” (N. Papadopoli). All’interno, la “mandorla”, figurazione del cielo, è cosparsa di stelle. Tutt’attorno scorre l’iscrizione SIT TIBI XPE DAT Q.TV REGIS ISTE DUCAT che abbrevia il significato “Sia a te, o Cristo, affidato questo Ducato che Tu governi”. A dare maggiore sicurezza ai commercianti e agli investitori che lo utilizzavano non fu solo il titolo e lo stile immutato, ma anche la continuità della sua coniazione nel corso di vita dei 73 dogi in carica nei secoliA cambiare fu invece il suo nome che verso la metà del Cinquecento si trasformò in zecchino, termine che identificava l’esigenza di indicare le monete ancora integre che uscivano dalla nuova zecca edificata, su progetto del Sansovino, nella piazzetta davanti al Palazzo Ducale, dopo che un incendio aveva distrutto il vecchio edificio. Nella lingua veneta la nuova moneta venne chiamata cechin ossia prodotta nella zecca, che nel linguaggio veneziano era detta cecha.

Questa moneta è oggi largamente ricercata dai collezionisti di tutto il mondo non solo per la bellezza del conio ma anche per il fascino storico che racchiude nel suo tondello.

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